Employee engagement nelle Community… Quando sorgono problemi

28.11.2017 - Tempo di lettura: 4'
Employee engagement nelle Community… Quando sorgono problemi

Abbiamo visto l’importanza di creare una Community per favorire la realizzazione di iniziative di social learning, facendo emergere dal basso il talento attraverso sistemi di collaborazione, dialogo, scambio di esperienze.

Il problema, però, è riuscire in questo obiettivo quando ci si rende conto che vengono meno o, addirittura, mancano le azioni collaborative tra i membri e si stenta a farle decollare. Se l’ambiente sembra refrattario, le persone non si espongono più di tanto e non condividono pensieri e conoscenze, significa che alla base manca la fiducia nella Community e soprattutto che l’employee engagement è decisamente ai minimi termini.

Prescindiamo, per semplificare il ragionamento, dal problema del diverso livello di conoscenza degli strumenti digital e social da parte dei collaboratori, anche perché la trasformazione di cui parliamo non è tanto tecnologica quanto culturale (cultural divide).

Dall’università  alla pluriversità.

Dobbiamo anzitutto renderci conto che siamo in un’epoca che ha ormai superato l’approccio basato esclusivamente sui libri e sulla formazione d’aula come strumenti di apprendimento e di conoscenza. Oggi, come sostiene Francesco Varanini, si è passati dall’università , quale unico luogo attraverso il quale era possibile accedere alla conoscenza, a una pluriversità .

Non esiste più il problema della scarsità  degli strumenti di conoscenza e della difficoltà  di accesso alle fonti. Al contrario, ognuno di noi dispone di media, a partire dai motori di ricerca, che consentono di ottenere tutte le informazioni di cui necessita. A condizione che la ricerca nasca da un impegno serio, preveda un certo investimento affettivo e il giusto senso di responsabilità .

Apprendere lavorando.

La tendenza, ormai insita nei collaboratori, è quella di ricercare informazioni utili quando servono “quindi mentre si sta lavorando” interfacciandosi con network di riferimento, cercando naturalmente di sfruttare la propria esperienza, la propria capacità  selettiva e privilegiando gli aspetti visivi e le modalità  informali e più coinvolgenti, lasciandosi guidare dall’istinto, dal gusto della scoperta, dalla curiosità  (serendipità ).

Questo atteggiamento fa capire che i vari modelli costruiti sulle competenze “hard” cominciano ad avere sempre meno senso se non si tiene conto delle singole e specifiche conoscenze e delle personali capacità  (capability) individuali, cioè delle cosiddette softskill.

La formazione in divenire.

L’apprendimento deve diventare un processo “in the flow, basato sulla sperimentazione personale, favorendo percorsi non definiti, non usuali, poco strutturati. Una strada adatta alle singole esigenze dei collaboratori, ad essi più congeniale e in grado di valorizzare le singole capability.
Siamo arrivati in certi casi a una situazione quasi paradossale: diventa indispensabile imparare a disapprendere per essere capaci di apprendere sul serio. Cerchiamo di chiarire il concetto riportando una bella affermazione di Shunryu Suzuki:

Nella mente del principiante ci sono molte possibilità, in quella dell’esperto ve ne sono poche!

Per formare è meglio la tecnica del giardiniere.

Di fronte a queste considerazioni, comprendiamo che aveva ragione Freud a inserire tra le cose impossibili da realizzare anche l’educazione e, in senso lato, la formazione. Ugo Morelli, professore di psicologia del lavoro e dell’organizzazione presso l’Università  degli Studi di Bergamo, sostiene che in un ambiente caratterizzato dall’incertezza occorre avere l’abilità  del giardiniere nel tentare di favorire la collaborazione e la partecipazione all’interno di una comunità.

Ovvero, occorre che chi ha la responsabilità  delle HR impari con i collaboratori a fare un po’ di giardinaggio: seminare, fertilizzare, proteggere, tagliare i rami secchi. Con il tempo si alimenta la speranza che le piante crescano e portino frutti, ma bisogna essere anche disponibili a riconoscere che vi sono terreni non adatti alla semina o che possono esaurire dopo un certo periodo la carica produttiva e diventare sterili.

Puntare sul microlearning, sull’apprendimento pratico.

Quando la partecipazione all’attività  formativa all’interno di una Community registra un calo, occorre cercare di mettere in campo tutti gli strumenti comunicativi pi๠autentici che abbiamo a disposizione, da quelli pi๠tradizionali a quelli meno convenzionali, cercando di orientare i collaboratori (anche quelli che non fanno parte del proprio core team) affinché siano decisamente più concreti nel trasferire le loro esperienze.

In altre parole, non bisogna limitarsi a una descrizione astratta per quanto coinvolgente ed emotivamente carica (storytelling), ma cercare sempre di legarsi alla operatività  quotidiana (storydoing). Favorire quello che alcuni chiamano microlearning, una sorta di processo di formazione dinamico, fatto per piccoli passi, integrato al lavoro che si sta svolgendo.

Fiducia e reciprocità  su basi concrete.

Occorre un changing of mind profondo che permetta di ricercare l’armonia della reciprocità, che consiste nella capacità  di modulare intenzionalmente il comportamento di ognuno rispetto a quello degli altri. Solo in questo modo si possono favorire le relazioni di gruppo e la condivisione delle esperienze, permettendo l’emancipazione collettiva che considera l’apprendimento come selezione, riconoscimento, sharing, e non come mere istruzioni.

D’altra parte, il pericolo del rifiuto e del disengagement può nascere dal fatto che chi opera all’interno della Community si sente incastrato in un meccanismo che non gli permette di essere parte attiva. Trasferire agli altri informazioni che consentano di favorire in modo pratico e immediato lo svolgimento del proprio lavoro è la chiave più giusta sia per creare un commitment efficace sia per rafforzare l’engagement e la fiducia tra i collaboratori. Attraverso lo scambio generoso di contributi, idee, suggerimenti e soluzioni utili si crea un senso di reale gratitudine verso coloro le hanno condivise.

Se riusciamo a costruire dei ponti legando il senso di partecipazione emotiva con l’utilità  pratica, potremmo percorrere l’ipotesi di aumentare la fiducia che sta alla base della social collaboration.

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