Smart worker: autonomi, connessi, competenti

15.12.2017 - Tempo di lettura: 4'
Smart worker: autonomi, connessi, competenti

Piattaforme interne: dialettiche o dialogiche?

“Autonomi, connessi, competenti” sono le caratteristiche principali degli smart worker contemporanei, non per forza quelli che lavorano col portatile in grembo sotto una pianta, ma anche coloro che partecipano in modo più tradizionale alla vita dell’azienda, aspettandosi, però, che questa sia in grado di soddisfare bisogni più sofisticati rispetto al passato.
Nelle teorie organizzative, il concetto di autonomia ha ricevuto grande attenzione sia nello sviluppo del fenomeno dell’empowerment che nel dibattito sollevato dalla Self Determination Theory (RDT) di Ryan e Deci (2000) secondo la quale per ogni professionista realmente produttivo (e non solo) è cruciale la spinta propulsiva della motivazione intrinseca, perfettamente supportata da logiche di auto-determinazione e capacità  esplorative individuali.

Chi si occupa di organizzazione (ma anche di gestione delle risorse umane) sa che, oggi, il paradosso più difficile da gestire è quello tra necessità  di controllare quello che accade e, nel contempo, trarre vantaggio dall’innovazione derivante dall’iniziativa del singolo, aldilà  dei compiti elencati in job description.

Tuttavia, è anche noto l’elevato tasso di fallimento quando i vertici tentano di ingaggiare i collaboratori attraverso l’utilizzo di ambienti digitali o strumenti tecnologici volti a trasferire il meta-messaggio: €œecco, sono a tua disposizione, 24h su 24h, usami come preferisci e produci i tuoi risultati€.

Sembra crearsi un curioso cortocircuito che impedisce ai worker di divertirsi a scoprire le potenzialità  della social collaboration organizzativa così come capita in modo del tutto naturale nel privato, col proprio network di riferimento.

Ma si tratta solo di timore di essere controllati e idiosincrasia verso l’imparare ad usare nuovi aggeggi o c’è dell’altro? Dove fanno acqua i progetti di innovazione legati alla digital transformation interna alle aziende?

Secondo Stefano Pace, PhD, Associate Professor presso Kedge Business School e Adjunct Professor presso l’Università  Bocconi (Dipartimento di Marketing), per rispondere, può essere utile partire da alcune osservazioni non immediatamente legate al tessuto aziendale.

“Intanto, prima ancora di essere impiegati, ingegneri, manager, specialisti noi siamo (o non siamo) consumatori di tecnologia, ossia la usiamo in condizioni non lavorative. Tale consumo ha un effetto alone anche sull’uso di quelle in un contesto professionale. Intenzionalmente o inconsapevolmente, portiamo in ufficio, sulla scrivania, nei laboratori e nelle fabbriche le nostre pratiche di consumo di contenuto e di consumo dei media, ogni volta che il nostro sguardo incrocia un display.
Poi, consumare tecnologia non significa consumare Giga, prosciugare batterie, spendere Bitcoin: significa costruire e attribuire alla tecnologia un valore culturale (ossia un sistema coeso e sfaccettato di conoscenze implicite, di sottotesti, di emozioni condivise)”.

Un primo spunto per comprendere le resistenze che possono incontrare le tecnologie nelle imprese ci è fornito da un sociologo, Richard Sennett. Nel suo libro Together, in cui esplora la cultura sottostante ai concetti di cooperazione e coordinamento fra persone, Sennett descrive evoluzione e declino di una tecnologia collaborativa come Google Wave (annunciato da Google nel 2009, lanciato di là a poco e poi chiuso nel 2012) che in qualche modo imitava alcune delle caratteristiche dei social media. Con Google Wave si intendeva riprendere la discussione fra varie parti che oggi caratterizza i social network, per trasformarla in una discussione di tipo collaborativo, ossia col fine di raggiungere un obiettivo comune. Tuttavia, in tali sistemi (spesso basati su testi) si perde il contesto, il non-detto, l’alone emotivo. Per Sennett, tale perdita non è una perdita di colore, non è semplicemente una barzelletta che non fa ridere se non detta di persona; è piuttosto e pi๠intensamente una perdita di senso completa e una riduzione della comunicazione a mera condivisione di informazioni.

Quella descritta da Sennett per Wave è una configurazione dialettica e non dialogica della piattaforma. I processi dialettici seguono lo schema classico della tesi, antitesi e sintesi. In pratica, si scrive un commento, un altro soggetto risponde, il contributore a sua volta reagisce e così via, in una schermaglia a due (o fra pochi soggetti). La discussione rimane a stella, con un contributo iniziale seguito da raggi distinti di commenti e contro-commenti duali. Nell’interazione dialettica ciascuna delle parti interagenti tende a imporre il proprio punto di vista. La dialettica non tende a raggiungere uno stato di vera ibridazione né delle opinioni (nelle piattaforme aperte), né dei contenuti (nelle piattaforme aziendali).

Il dialogo è diverso. Un’interazione dialogica, diversamente da quella dialettica, tende a impastare insieme le idee, a combinarle per far emergere qualcosa che appartiene a tutti e non al singolo, che pure ha dato il suo contributo individuale.

I sondaggi (e soluzioni simili) nelle piattaforme collaborative, ad esempio, sono dialettici e poco dialogici. Addizionano idee senza metterle a sistema.

Nei social media di consumo (e nelle tecnologie di interazione in genere), l’utente è abituato sia a interazioni dialettiche che a quelle dialogiche. Le interazioni dialogiche per molti versi sono più gratificanti perché danno al contenuto iniziale il valore di una scintilla che genera qualcosa di diverso da sé, causa ulteriori contenuti e contributi che prendono spunto dall’idea iniziale per elaborarla nella discussione con gli altri e fra altre persone. Un contenuto che vive e cresce autonomamente nella notte, mentre si dorme, mentre si guida, mentre si rende un caffè.

Perché le piattaforme collaborative interne delle aziende potrebbero tendere a una struttura dialettica e non dialogica?

Le discussioni dialogiche tendono a non avere un termine, un esito finale. Per loro stessa natura, le interazioni dialogiche sono un libro sempre aperto per nuovi agganci e nuovi spin-off. Questa caratteristica non combacia con la necessità  tipica di un’organizzazione di chiudere un budget, di arrivare a un piano finale, di giungere a una conclusione approvabile dal CEO.

Il suggerimento che si può evincere da Sennett è che le piattaforme collaborative aziendali dovrebbero distinguere in modo chiaro (con un adeguato design e con la formazione degli utenti) le zone e i processi della piattaforma in cui è richiesto un esito finale di tipo dialettico quindi una struttura di tesi-antitesi-sintesi da quelle in cui l’aspetto esplorativo e dialogico può avere uno spazio più ampio. Il budget lo chiudi con la dialettica. L’idea per il nuovo prodotto è probabilmente una discussione dialogica sempre aperta dalla quale prendere spunto per una versione diversa e cangiante a ogni release.

Accanto al lavoro manageriale e di decision-making, la collaborazione digitale richiede un lavoro emotivo fatto di riconoscimento del coinvolgimento o della noia altrui, di superamento del razionalismo fordista che è sempre dietro l’angolo, sollecitato magari da un’accezione efficientista del digitale, che invece è tecnologia dell’emozione.

Ma c’è di più: creare un account interno è comunque aprire un altro giardino reputazionale da seminare e di cui prendersi cura, in un investimento per un rinnovato e non facile capitale sociale. Chi, ad esempio, fa foto bellissime che pubblica su Instagram, è lଠche ha un suo piccolo, ma fedele, seguito. Ogni volta che le sue dita cliccano per pubblicare una sua foto, la colla di Instagram prende un pezzettino del suo capitale sociale (estetico, fotografico, di gusto) e lo spalma sull’account, accrescendolo. Eppure quelle foto non valgono nulla nel profilo della piattaforma collaborativa aziendale. Capitale azzerato. Il che è sufficiente a raffreddare qualsiasi entusiasmo da partecipazione o condivisione.

Queste complesse implicazioni psicosociali costituiscono il nuovo terreno di comprensione dei meccanismi relazionali azienda-collaboratore e continueranno ad incidere sempre più sulla spinta partecipativa dei worker, nonché sulla loro produttività.

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