Nessun professionista dovrebbe “essere coinvolto” in azienda. Considerazioni sul knowledge management

11.01.2017 - Tempo di lettura: 2'
Nessun professionista dovrebbe “essere coinvolto” in azienda. Considerazioni sul knowledge management

Quando un’azienda avvia iniziative di knowledge management, in genere, lo fa con grande entusiasmo: inizia a scavare pozzi di conoscenza occulta, disseminati dentro tutta l’organizzazione e già  si frega le mani in previsione della prossima spinta per il business.

Tuttavia, questo entusiasmo viene meno con grande facilità  per almeno due ordini di motivi: 1) identificare il know how più utile per un organismo in continuo cambiamento non è uno scherzo, specie in contesti mastodontici e iper-gerarchizzati 2) quand’anche si riuscisse a identificare e stoccare la conoscenza tacita diffusa nelle menti e nei cuori delle risorse umane, non è detto che si riesca, poi, ad utilizzarla in qualche modo.

Già , perché io (azienda) posso anche mettere a disposizione colossali bacini di informazione (dopo un lavoro infinito e sfibrante di estrazione), ma poi ci vuole la buona volontà  di recuperarla costantemente e trasformarla in operatività , all’interno di un work-in-progess pressoché interminabile. E là sono dolori.

In assenza di linee guida ufficiali sull’uso della conoscenza collettiva (creazione, diffusione, monitoraggio, eliminazione dell’obsoleto, ecc) i collaboratori percepiranno ogni attività  (e, quindi, ogni strumento fornito) come una procedura inutile, ridondante, che incide negativamente sull’orario di lavoro e la produttività .
Inutile dire quanto si dimostri altrettanto nocivo il proliferare di know how caotico e disorganizzato: l’aggiornamento delle informazioni e la categorizzazione logica per il reperimento delle stesse sono, senza dubbio, molto più cruciali che in passato.

Al momento, solo un razionale processo di digitalizzazione può venire in soccorso del knowledge manager, (almeno fino a quando non ci impianteranno un chip direttamente nel cranio, come piacerebbe agli sceneggiatori di Black Mirror).
Laddove non si riscontri un gap di tipo tecnologico (mancanza di ambienti per la condivisione, scarso appeal delle piattaforme, ecc), s’incapperà  probabilmente nel famigerato gap culturale e di atteggiamento: da qui l’esigenza di una posizione forte e chiara da parte dei vertici.

Ma se i vertici sono convinti e gli strumenti vengono predisposti, come si può sviluppare anche la motivazione delle risorse al loro utilizzo?
(No, il lavaggio del cervello non è contemplato come soluzione).

Il concetto di “coinvolgimento” viene spesso utilizzato come una sorta di panacea. Il flussi lavorativi non sono fluidi? Manca il coinvolgimento. I processi decisionali sono schizofrenici? Manca il coinvolgimento. La piattaforma appena acquistata (e pagata fior di quattrini) stenta a decollare? Eccerto: è mancato il coinvolgimento.

Ora, per quanto questa cosa del tutti-insieme-appassionatamente possa essere molto edificante in teoria, nella pratica, chiunque si sia mai trovato a gestire altre persone sa che coinvolgere: 1) è difficile in assoluto 2) non è sufficiente a generare engagement, entusiasmo, adesione ai progetti e tanto meno a stimolare un senso di collaborazione serio e continuativo.
Non solo: più coinvolgo, più incontro resistenze, più tempo perdo a definire una linea d’azione.

Il punto è che nessun professionista, all’interno di un’organizzazione moderna, dovrebbe essere coinvolto (dall’esterno, maldestramente, forzatamente), ma dovrebbe voler partecipare in modo naturale poiché percepisce che quello è il modello comportamentale praticato dall’intera organizzazione e viene ribadito, consolidato e valorizzato ogni santo giorno.

Finché la fase della condivisione della conoscenza, della proposta, dello studio di nuove soluzioni sarà  vissuta come “un di più”, un’attività  extra-professionale, a margine, da curare nei ritagli di tempo e solo quando costretti da qualche petulante formatore, chi si sentirà  mai persuaso a impegnarsi per elargire contenuti o intuizioni, arricchire un data base, o utilizzare un social interno per fare rete?

Di più: se ci ho provato già  altre volte e l’organizzazione non ha mai dato seguito ai miei suggerimenti o al mio investimento di energie, chi me lo fa fare a sbattermi tanto senza alcun tipo di ricompensa?
Ho incontrato numerose realtà  che si sono premurate di inserire direttamente nella job description voci tipo contribuire alla crescita dell’organizzazione attraverso attività  di confronto e miglioramento continuo, ma poi, di fatto, nessuno controlla, nessuno tiene conto degli sforzi, nessuno sa neanche interpretare esattamente cosa significhi ai fini di un colloquio valutativo.

Francamente non credo che manchi il coinvolgimento, mi pare manchi l’abilità  di rendere il coinvolgimento produttivo, economicamente interessante e desiderabile in senso ampio, sia per i vertici che per i collaboratori.
O ci mettiamo in testa che siamo nella dannata era della conoscenza e iniziamo ad agire di conseguenza, o parrebbe più di buon senso evitare azioni spezzettate e disomogenee dallo sgradevole sapore di toppa, con relativi salti mortali per argomentarne l’assoluto valore.

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