Digital transformation e comportamenti organizzativi abilitanti

11.10.2017 - Tempo di lettura: 3'
Digital transformation e comportamenti organizzativi abilitanti

Nel 2003 iniziai a lavorare presso una multinazionale e, tra le varie routine del ruolo, mi fu affidato lo sviluppo di un progetto: creare un manuale-guida per i neo inseriti.

Già  così risultava crudelmente buffo: un neo inserito che crea una guida per neo inseriti. Alla dirigente dev’esser sembrata una genialata: sfruttare la mia condizione particolare per ottenere spunti e suggerimenti volti ad agevolare gli spaesati del futuro.

Così, mentre cercavo di capire dove fossero i cessi, rispondevo a gente sconosciuta che mi chiedeva cose sconosciute e non avevo la più pallida idea di come funzionasse la stampante, dovevo creare la bibbia del neoinserimento.

Poiché né la responsabile, né altri colleghi avevano alcuna intenzione di illuminarmi su cosa avrebbe potuto contenere questo manuale, vagavo per i corridoi, gli uffici, le sale ristoro interrogando estranei impegnati e sospettosi sulle loro storie organizzative, le loro strategie di sopravvivenza e i vari “come funzionano le cose qui dentro”.

Ma il manuale non progrediva (tranne che per la mappa dei servizi igienici).

Non ero sprovvista di buona volontà  o competenze tecniche, ma, decisamente, mi mancava tutto il resto: la visione (non conoscevo bene l’azienda), la capacità  di selezionare i contenuti adeguati (il mio livello di comprensione del contesto era troppo basso) e, soprattutto, non avevo accesso alle informazioni.

Non c’erano mega-piattaforme di knowledge sharing, social network interni, forum di dibattito in real time, software per la gamification, app per il project management.

Il cloud? Che è? Farà  brutto tempo?

Se ti davano un indirizzo mail e la password per visualizzare una serie di file condivisi in una intranet assurda, dentro cui potevi annegare rapidamente nel nulla, eri già  fortunato.

Annaspavo dentro cartelle, presentazioni, pdf dagli illuminanti titoli come “doc riun meet 2001” e documenti cartacei in Times New Roman corpo 9, tentando di distillare indicazioni operative e idee.

Per la prima volta mi chiedevo se quella difficoltà  nel reperire informazioni chiare, utili, esplicative, ben strutturate fosse frutto di una deliberata scelta per accentrare il potere nelle mani di pochi eletti o avesse a che fare con un’ignoranza di fondo su come funzionano le aziende che funzionano. Almeno nelle procedure di base.

Ne è stata fatta di strada da allora, tuttavia, spesso si continua a confondere il punto.

Il punto non è “realizziamo una piattaforma figa e ipertestuale coi like e le faccine, così i millenial si sentono a loro agio”, bensì quali comportamenti-strumenti abilitanti l’organizzazione deve mettere in campo per fluidificare i processi interni, snellire i colli di bottiglia, sbloccare il potenziale dei collaboratori, aumentarne il senso di autoefficacia?

Se un certo tipo di rapporto paternalistico azienda-organizzazione (vieni qui che ti faccio guadagnare ogni anno di più) è andato in crisi, prende piede una concezione del lavoro nella quale i professionisti si aspettano di essere messi nella condizione di incidere in qualche modo sul loro stesso ambiente, strutturando autonomamente reti di expertise e avvalendosi di know how diffusi, organizzati e di facile accesso. Magari con un click.

Alessandro Donadio nel suo HRevolution ricorda come:

“Le organizzazioni hanno perso le risorse di scambio classiche, ma possono rilanciare puntando verso istanze della persona che sono molto contemporanee. Nel rapporto con le organizzazioni le persone chiedono:

  • progressivo guadagno di autonomia decisionale e autodeterminazione
  • massimo accesso alle informazioni sia operative che strategiche
  • opportunità  di scambio e crescita attraverso il confronto con colleghi
  • ambiti sfidanti in cui possano giocare un ruolo forte anche saperi e attitudini personali
  • ambienti in cui l’innovazione è processo collaborativo e partecipato
  • la possibilità  di dare senso al proprio lavoro”.

Se condividiamo questi assunti, diventa evidente come il ruolo della digital transformation confermi una connotazione fortemente umanistica, formativa e motivazionale, non solo gestionale, operativa, di semplificazione o, peggio, di rinnovamento di facciata.

In questi nuovi contesti di senso, la presenza dell’Azienda ha bisogno di assumere forme un po’ più evolute e concettualmente rilevanti di “dimostriamo la nostra capacità  di creare engagement lanciando un concorso interno con in palio due biglietti per un concerto e poi postiamo le foto su Instagram”.

Se l’organizzazione auspica che i collaboratori la piantino di fare il compitino e mettano in campo delle risorse altre, proprie delle nuove filosofie produttive moderne (reputazione e immagine personali, influenza sul proprio network, abilità  che non rientrano specificamente nella job description, tempo extra-lavorativo, idee originali, ecc) dovrà  chiarire in che modo sosterrà  costantemente questo scambio di energia e opportunità , rendendo processi e contenuti trasparenti, disponibili e organizzati secondo logiche intuitive anche per l’ultima ruota del carro.

Ma sarà  davvero questa la volontà ?

Ora scusate, torno a scrivere il mio manuale, dopo 15 anni, finalmente so cosa metterci.

Articoli correlati