Dalla leadership “femminile” alla costante mutevolezza: come sarà il lavoro del futuro e cosa possono fare le aziende

23.07.2021 - Tempo di lettura: 5'
Dalla leadership “femminile” alla costante mutevolezza: come sarà il lavoro del futuro e cosa possono fare le aziende

Ne parliamo con Silvia Zanella, manager e autrice del libro “Il futuro del lavoro è femmina”, con cui facciamo il punto anche su smart working e nuovi modi di pensare la carriera.

Come lavoreremo domani, alla luce di una pandemia che ci ha profondamente cambiati? Questo cambiamento riguarda tutti, solo i manager o chi cerca lavoro? Arrivati a metà del 2021, una riflessione su quanto è successo e quanto ancora sta succedendo e succederà è sicuramente necessaria, per capire quale direzione si sta prendendo e, allo stesso tempo, individuare eventuali strade alternative.

Una riflessione che soprattutto le aziende, piccole medie o grandi che siano, devono fare per essere davvero protagoniste, possibilmente anticipatrici di alcune tendenze, e non limitarsi a vivere i cambiamenti aggiustando il tiro man mano.

Abbiamo portato la riflessione sul tavolo di Silvia Zanella, manager e autrice del libro edito da Bompiani “Il futuro del lavoro è femmina”, con cui parliamo di un nuovo tipo di leadership, di un nuovo modo di considerare la carriera, di cosa resterà dello smart working, di employee experience e tanto altro ancora.

Un nuovo tipo di leadership con caratteristiche e competenze “femminili”

Iniziamo con il titolo del libro, in cui si afferma che il lavoro del futuro è “femmina” e non donna e questo perché, come sostiene l’autrice, sta emergendo un tipo di “leadership femminile con caratteristiche associate più alle donne che agli uomini. Vale a dire una leadership che è emozionale e relazionale e che ha dalla sua la capacità di mettersi in comunicazione con gli altri, di ascoltare, di provare empatia. Una leadership tipica di chi non si vergogna della vulnerabilità, né propria né altrui, e riesce ad accompagnare le persone in percorsi difficili”.

Una leadership diversa da quella che spesso identifica il leader con il capo e che dunque “non è accentratrice e basata sul potere fine a sé stesso, quindi sul controllo. E questo anche in virtù della pandemia che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo. Basti pensare allo smart working, grazie al quale capacità di delegare, fiducia, responsabilizzazione sono emerse in maniera prepotente per evitare problematiche di gestione del lavoro, da un lato, ma anche perdita di motivazione dei collaboratori dall’altro”.

Cosa resterà dello smart working e quanto conta per le aziende del futuro

A proposito dello smart working, che fino al termine dell’anno si svolgerà in deroga alla legge 81 del 2017, quindi senza accordi individuali tra datore di lavoro e personale: cosa resterà dopo la pandemia? Le aziende torneranno tutte in presenza o qualcosa è cambiato?

La parola ancora a Silvia Zanella: “Sicuramente resterà la consapevolezza che si può lavorare in questa modalità, così come resterà cosa invece non è andato bene: per esempio il fatto che più che in smart working abbiamo lavorato in remote working. Secondo me, se lo smart working è opportunamente accompagnato dai giusti strumenti, non solo tecnologici ma soprattutto filosofici, manageriali e di approccio, può coesistere tranquillamente insieme al lavoro fisicamente in sede. Peraltro, un’attività purpose driven, guidata cioè dall’obiettivo e da quello che uno deve fare, permette alla persona di regolarsi in maniera autonoma e responsabile su dove e come svolgerla al meglio. Questa è sicuramente una delle più grandi sfide che dovremo affrontare”.

E lo smart working conta molto anche per l’employer branding, visto che sempre più candidati valutano se l’azienda offra la possibilità di lavorare in questa modalità. “Questa situazione di costrizione”, precisa la manager, “ha liberato in un certo senso il lavoro e sarà molto difficile tornare indietro, sia per quel che riguarda l’attrattività di aziende che non permetteranno di fare smart working sia per l’organizzazione del lavoro e la sua gestione. Una situazione che sicuramente va gestita, ma non in ottica ‘restauratrice’ facendo finta che non sia successo nulla e neanche, viceversa, negando alle persone gli strumenti per poter lavorare al meglio”.

Come cambia la carriera con la discontinuità e cosa possono fare le HR

In tutto questo, un ruolo da protagonista ce l’hanno sicuramente le Risorse Umane, che devono fare i conti anche con una maggiore fluidità che riguarda per esempio il percorso di carriera. Carriera che non è più intesa meramente in modo ascensionale ma, piuttosto, “è contrassegnata, come abbiamo avuto modo di constatare, da cambiamenti radicali, alternanza tra momenti operativi e formativi, tra pause intenzionali e stop forzati” precisa Silvia Zanella.

Insomma, l’idea di iniziare con l’ultimo gradino della scala e avere successo in base a quanti “sottoposti” si hanno e alla posizione che si occupa non è più così fortemente radicata e questo grazie a una parola su tutte: discontinuità.

“E gestirla per le aziende non è affatto facile: rispetto a carriere lineari e a passaggi familiari che hanno contrassegnato nei decenni addietro, per esempio, banche e istituti finanziari, ma non solo, è chiaro come questo tipo di successione e consequenzialità sia lontana dal mondo che stiamo attraversando e attraverseremo. Per le imprese è necessario capire questa discontinuità e farla propria, non a discapito delle persone, facendole vivere in un clima di costante precarietà e paura, ma piuttosto comprendendo il valore aggiunto di alcuni processi non lineari. Penso per esempio a chi si prende un anno sabbatico, a chi fa un figlio e che proprio grazie alla maternità o paternità può acquisire delle competenze di natura diversa e soprattutto non perde quelle che aveva già”.

Un concetto che è anche alla base di un percorso e di un libro di Riccarda Zezza dal titolo “Maternity as a master”.

“Devo dire che mi stupisce molto”, confessa Silvia Zanella, “il mettere in panchina o demansionare professionisti che hanno avuto figli, anche alla luce del fatto che prima un’azienda ci ha investito ma basta un’assenza di sei mesi perché ne riconsideri il valore”.

Va da sé che la discontinuità porta le persone a non avere più un modo univoco e permanente di definirsi; sono cambiati i punti di riferimento e anche tutto quello che aveva contribuito alla formazione della cosiddetta coscienza di classe ha cominciato a scricchiolare.

Come devono comportarsi le aziende di fronte a tutto ciò e alla cosiddetta perdita del posto fisso?

“Ormai è chiaro che né le imprese né le persone possono ragionare in tal senso e questo perché una singola professionalità cambia così tante volte durante il suo percorso che un solo job title non riesce a connotare la sua identità professionale. Credo che sia un passaggio complesso per le aziende, che devono gestire profili cangianti e fasi della vita diverse, ma anche per le persone, abituate al lavoro stabile e a identificarsi con esso. Questo è, a mio avviso, uno dei tratti più complessi della modernità: il primo passaggio per affrontarlo potrebbe essere acquisire consapevolezza di questa mutevolezza e accettarla senza stigma, purché non ci siano problemi legati alla disoccupazione e alla conduzione della vita”.

L’employee experience e le skill “femminili”

In che modo condurre la cosiddetta employee experience e quali skill “femminili” mettere in campo? Lo chiediamo sempre a Silvia Zanella, che ci ricorda come “le persone hanno una vita all’interno dell’azienda che precede addirittura il loro ingresso. Il percorso inizia con il prendere in considerazione un brand, per pensare poi di inviare la propria candidatura fino ad entrare dentro il processo di selezione, vivere le fasi di induction e onboarding, e arrivare all’uscita.

Che un’azienda pensi di focalizzarsi solo sul ‘Prendo i candidati e li formo’ senza tenere conto dell’intero employee journey comporta delle problematiche, perché questo viaggio deve essere coerente e coeso all’interno dell’esperienza che fanno le persone. Io credo che ascoltare le persone, dimostrarsi attenti alle loro esigenze ed essere esigenti rispetto a quello che devono fare siano le chiavi per creare team motivati.

La motivazione è fondamentale e a questo serve l’ascolto, perché in questo modo si riesce a comprendere quello che conta veramente per il collaboratore. Come già detto, tutte queste caratteristiche, più legate all’universo femminile, ci aiutano a capire meglio come lavoreremo domani”.

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