Il purpose degli Studi professionali

20.05.2025 - Tempo di lettura: 3'
Il purpose degli Studi professionali

In un tempo in cui ci si interroga su passaggi generazionali, governance, retention dei giovani Professionisti e, in generale, branding concentrandosi spesso solo su “che cosa” e “come”, quella che invece viene altrettanto di frequente elusa e potrebbe di gran lunga aiutare a trovare delle risposte è una semplice domanda di base: perché? Perché esiste uno Studio professionale?

Serve una ragione profonda, in grado di orientare scelte strategiche, attrarre talenti, resistere alla prova del tempo. Serve, in una parola, un purpose, una ragione che esprima la vera vocazione dello Studio, l’essenza, la ragione ultima, il vero perché lo Studio esiste.

Il purpose non è uno slogan

Come osserva Giorgio Donna in un recente articolo su Harvard Business Review Italia, il purpose non è uno slogan da scrivere nella brochure, ma l’identità viva dell’organizzazione, il suo “centro di gravità permanente”. Quando è autentico, quando informa le scelte e i comportamenti reali, può sostenere l’impresa (e, quindi anche lo Studio) anche nei momenti di crisi. Anzi, spesso è proprio il purpose a tenere insieme l’impresa quando l’intelligenza strategica fallisce, quando i margini si assottigliano, quando i fondatori si fanno da parte.

Quanto conta per uno Studio professionale?

Se questo vale per un’azienda manifatturiera o per un marchio globale, quanto può valere per uno Studio professionale, in cui i legami personali sono spesso più forti del sistema formale, e dove la leadership si fonda su una reputazione costruita nel tempo?

Molti Studi non nascono con un purpose esplicito. Sono il frutto dell’iniziativa di uno o più Professionisti, spesso motivati da visioni differenti: un’idea di eccellenza tecnica, un’urgenza civile, il desiderio di autonomia. Il problema è che questi motivi, spesso impliciti, non vengono trasmessi o condivisi nel tempo. Quando si apre il tema del passaggio generazionale – e prima o poi accade – mancano le parole e le coordinate comuni. L’identità dello Studio è rimasta nella testa (e nella sensibilità) dei fondatori.

Una lezione da chi ha resistito al tempo

Eppure, esempi di organizzazioni che hanno costruito la loro capacità di perpetuarsi su un purpose condiviso esistono, anche fuori dal mondo del business. Anzi, forse è proprio al di fuori dei perimetri conosciuti che è opportuno guardare per trovare l’ispirazione giusta.

Una congregazione religiosa da me studiata, nata nell’Ottocento da due donne profondamente diverse, ha dimostrato che ciò che loro indicavano come “carisma fondazionale” – che a tutti gli effetti è equiparabile, in termini aziendalistici, al purpose- chiaro, vissuto come necessità personale prima ancora che vocazione in senso strettamente religioso, può sopravvivere al tempo, alle crisi, ai cambiamenti storici.

Anzi, è proprio per poter consentire al carisma fondazionale di restare vivo che tutto quanto ad esso ruota intorno, le persone, la struttura organizzativa, la dimensione societaria, l’accoglienza e la formazione di chi vuole condividere lo stesso cammino, le scelte espansionistiche e, non ultima, la comunicazione, si adoperano affinché questo accada.

Il valore strategico di una finalità forte

Non servono visioni religiose per trarre un insegnamento utile agli Studi professionali di oggi. Basta riconoscere che un’organizzazione che nasce e cresce intorno a una finalità forte, capace di coinvolgere le persone ben oltre il piano economico, ha una marcia in più.

È più facile attrarre chi condivide quei valori. È più facile discutere decisioni difficili quando esiste un riferimento comune. Ed è più facile accettare il cambiamento se lo si vive come modo per rendere vivo il purpose, non per tradirlo.

Un’anima per durare

In altre parole, lo Studio con un’anima dura di più. Non perché è più buono o più gentile, ma perché riesce a tenere insieme intelligenza organizzativa e coesione identitaria, le due risorse più fragili e più essenziali per ogni organizzazione complessa.

Se uno Studio vuole affrontare davvero il futuro, se vuole crescere senza perdere l’identità, se vuole affrontare un passaggio generazionale senza lacerazioni, deve avere il coraggio di porsi una domanda semplice e profonda: perché esistiamo come Studio?

Il purpose non si scrive: si scopre

La risposta a questa domanda è il purpose. Lo ripeto, non basta scriverlo su una slide: va vissuto, discusso, incarnato. E non serve essere un’azienda da Fortune 500. Ogni Studio professionale, anche piccolo, può avere un purpose forte. E quando le persone che lo abitano sentono di lavorare per qualcosa, e non solo in qualcosa, allora ogni gesto quotidiano – anche una mail o una clausola contrattuale – diventa parte di una missione.

Le domande giuste da porsi

Ma come si fa a trovare il proprio purpose, in concreto? È qui che molte organizzazioni inciampano. Perché sembra semplice, e invece è un lavoro profondo. Non si tratta di inventare una frase efficace, ma di portare alla luce ciò che già esiste. Il purpose autentico non si crea a tavolino: si scopre.

Per farlo, occorre porsi alcune domande, senza affrettare le risposte.
Perché esistiamo, al di là del profitto?
Qual è il bisogno del mondo – o dei nostri clienti – che vogliamo contribuire a soddisfare?
Che cosa difenderemmo anche se non fosse vantaggioso farlo?
Cosa ci ha motivato davvero nei momenti difficili?
Quale impronta vogliamo lasciare nel nostro settore o nella nostra comunità?
Che cosa i nostri collaboratori più giovani e più anziani riconoscono come “nostro”?

 Un percorso, non un esercizio di stile

Queste domande non sono semplici, ma sono necessarie. E le risposte migliori non emergono da una riunione di un’ora, ma da un percorso di ascolto, confronto e rielaborazione. Talvolta serve un facilitatore esterno, talvolta basta un gruppo che abbia il coraggio di guardarsi davvero.

Un purpose vissuto non rende uno Studio più perfetto. Ma lo rende più vero. E, nei momenti che contano, questo fa tutta la differenza.

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